Meloni, l’Europa e le alleanze chirurgiche

Martedì 21 Maggio 2024 di Alessandro Campi

Peccato per il mancato incontro televisivo tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein.

Sarebbe stato interessante mettere a confronto le loro idee alternative di politica, di società e, naturalmente, di Europa. Dobbiamo accontentarci, viste le regole farraginose che in Italia governano il dibattito tra i partiti durante le campagne elettorali, di un duello a distanza. Come tale meno appassionante e coinvolgente. Non lamentiamoci se poi gli elettori, già poco motivati, restano a casa. La piattaforma conservatrice della Presidente del Consiglio è quella presentata l’altro ieri, in videocollegamento, al vertice madrileno dell’eurodestra organizzato dai nazionalisti di Vox. Un saluto-comizio, non un discorso articolato. Ma nei quindici minuti scarsi del suo intervento è riuscita comunque a snocciolare i temi fondanti l’Europa del futuro che ha in mente: l’identità nazionale da tutelare contro ogni rischio di omologazione; la difesa della famiglia detta tradizionale; il no risoluto all’ideologia gender spacciata dai suoi sostenitori come linguaggio dell’inclusione.


E ancora: l’allarme sull’immigrazione clandestina da contrastare attraverso “nuove politiche di cooperazione con i Paesi africani, controllo delle partenze, lotta ai trafficanti di esseri umani”; la denuncia della maternità surrogata alla stregua di una pratica immorale (“comprare il corpo di donne povere, o scegliere i figli come fossero prodotti del supermercato, non è progresso, è oscurantismo”); la critica all’ecologismo catastrofista e ideologico.  Resta da capire se, rispetto alle sue posizioni più recenti, soprattutto quelle assunte nella sua veste istituzionale di Presidente del consiglio, tutto questo armamentario ideologico-valoriale (nulla a che vedere col fascismo, beninteso, si rilassino i suoi critici più esagitati) rappresenti una conferma senza sorprese del suo storico credo ultranazionalista o una sorta di brusco ritorno al passato dopo aver provato a costruirsi un’immagine da leader moderata e pragmatica.


Come molti esponenti d’estrazione nazional-populista Giorgia Meloni s’è in effetti forgiata nella polemica, elettoralmente fruttuosa, contro l’algida burocrazia di Bruxelles. Se ha cambiato prospettiva una volta arrivata a Palazzo Chigi, dicono i suoi critici, è stato solo per opportunismo e convenienza, mentre nell’animo è rimasta un’avversaria dell’europeismo. E nei momenti di sincerità, quando parla ai militanti della sua causa, questo tratto anti-sistema inevitabilmente riemerge. Ma si tratta di una lettura semplificata e non priva di strumentalità, specie se forzata nell’imminenza del voto europeo. Innanzitutto, la continuità delle idee non esclude di per sé modifiche nei propri comportamenti: in politica le contingenze e i contesti sono decisivi ai fini dell’azione e delle decisioni. Se i populisti sono cambiati rispetto alle origini non è dunque (solo) per convenienza, ma perché nel frattempo è cambiato in modo radicale il quadro storico e geopolitico globale. E con esso la concezione dell’Europa che ne avevano sia i suoi sostenitori troppo fanaticamente entusiasti sia, appunto, i suoi detrattori spesso polemici e ingenerosi.

Pandemia, rivoluzione digitale, emergenza climatica, sfida energetica, turbolenze economiche e finanziarie, disoccupazione e inflazione, flussi migratori incontrollati, conflitti armati diffusi… Quante cose sono successe in pochi anni! La dura realtà delle cose ha finito per rendere obsoleto, al tempo stesso, l’europeismo edificante e retorico e l’anti-europeismo propagandistico e pregiudiziale. Oggi non ci si divide pro o contro l’Europa, come appena cinque anni fa, ma su diverse (legittimamente diverse) visioni dell’Europa. Il vecchio consenso politico europeo su base consociativa tra socialisti e popolari s’era costruito in una congiuntura per molti versi unica e irripetibile. Una sorta di età dell’oro del capitalismo redistributivo e della democrazia sociale, nella quale al benessere economico diffuso e alla ridotta conflittualità tra le parti dentro gli Stati si univa un quadro dei rapporti internazionali sulla cui stabilità vigilava, anche per conto dell’Europa disarmata e pacifica, il gigante nordamericano.

Quell’epoca è finita, con le turbolenze e le paure che oggi vediamo serpeggiare ovunque, e che hanno fatto crescere il bisogno di politiche pubbliche basate su sicurezza e protezione, sulla riaffermazione di valori forti collettivi, sulle tematiche identitarie. Esattamente ciò che ha messo in crisi le vecchie famiglie politiche e fatto crescere le destre variamente intese facendole al tempo stesso uscire – esemplare il caso dell’Italia – da una condizione di opposizione politica ad oltranza, spesso sterile e fine a se stessa, e di minorità culturale a livello di dibattito pubblico. Per queste destre, conquistato un ruolo crescente nei rispettivi panorami nazionali, sino ad arrivare a responsabilità di governo, si prospetta ora la possibilità di accrescere il proprio ruolo anche all’interno di un’Europa chiamata a sfide che ne hanno messo definitivamente in discussione la sua autorappresentazione alla stregua di uno spazio geografico-culturale in grado di tenersi al riparo dalle tensioni, i rischi e le tragedie della storia.


La convenzione spagnola è stata esattamente questo: una chiamata alle armi del fronte conservatore e nazionalistico nella speranza di arrivare a condizionare, magari anche senza farne parte integrante, la futura maggioranza a Bruxelles. Come ha detto appunto Giorgia Meloni: “Un cambio in Europa è possibile se i conservatori europei saranno uniti.” Aggiungendo, forse con un eccesso di ottimismo: “Per la prima volta l’esito delle elezioni europee potrebbe sancire la fine di maggioranze innaturali e controproducenti”. Per la Meloni, come capo europeo dei conservatori, quello che si profila è un azzardo politico che nasconde un’opportunità storica: porsi come mediatrice e garante tra centrismo moderato e destra populista o sovranista, contribuendo così, se non a spostare in modo strutturale l’asse politico-ideologico della nuova Europa, quantomeno ad allargarne il perimetro politico-culturale, legittimando al suo interno componenti che ne erano pregiudizialmente escluse.

Ma è un’operazione che per riuscire ha bisogno, oltre che del voto dei cittadini, anche di scelte coraggiose. Bisogna cioè accettare di avere nemici a destra: se può avere un senso politico il recupero come alleata di Marine Le Pen, in abiti ormai sempre più presidenziali e repubblicani, diverso è invece il discorso con le formazioni dell’ultra destra xenofoba come i tedeschi di AfD. Per contare in Europa serve dunque chiarezza. Sui compagni di strada, non tutti accettabili, come anche sui temi per davvero dirimenti, come quello relativo alle alleanze internazionali e al posizionamento dell’Europa nei conflitti in corso. A Madrid non si è parlato di questo, il che fa temere che persista in quella galassia un pericoloso margine di ambiguità tra gli occidentalisti, compresi quelli di osservanza troppo rigidamente atlantista, e chi nasconde dietro il neutralismo odierno le sue antiche infatuazioni filo-russe. Se così è, visto che pace e guerra sono tornati ad essere temi politicamente discriminanti, l’eurodestra rischia di non andare lontano.


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