CHIOGGIA - Nove mesi a stipendio pieno e tre mesi al 90 per cento: è il cosiddetto "comporto" per i dipendenti statali, ovvero la somma delle assenze per malattia giustificabili in un periodo di tre anni. E la professoressa Cinzia Paolina De Lio che, dal 2013, insegnava storia e filosofia al liceo Veronese, vi faceva ampio ricorso. Ma con la particolarità di riuscire a collegare i periodi di assenza a quelli di sospensione delle lezioni, per le varie festività, e alle ferie, e finendo, in tal modo, per limitare l'attività didattica a brevi intervalli nel corso dell'anno. Non solo: altri permessi le venivano concessi per l'aggiornamento professionale (mentre era a Chioggia ha conseguito un master) e, negli anni precedenti, a lungo era stata posta "in distacco" presso uffici dell'amministrazione scolastica, in cui assolveva, in sostanza, un ruolo impiegatizio invece che didattico. È stato in questo modo che la professoressa è riuscita a totalizzare vent'anni di assenza dall'insegnamento su 24 come dipendente pubblica; un record, probabilmente. Ma non è stato questo a determinare la sua destituzione (in sostanza non potrà più entrare in una classe per far lezione) da parte del Miur: «Per inettitudine assoluta e permanente all'insegnamento».
Prof cacciata dal Miur: cosa faceva in classe
Il problema è sorto, a Chioggia, nel marzo 2013, quando la professoressa ha "insegnato" davvero, per un periodo di quattro mesi, uno dei più lunghi della carriera, provocando una sorta di rivolta di studenti e genitori.
Libro che tra l'altro, neppure si preoccupava di portare in classe, dato che se lo faceva prestare da qualche studente. Quando non si atteneva alla lettura del libro di testo, divagava parlando degli argomenti più vari e lo stesso atteggiamento lo teneva nei confronti degli studenti, iniziando l'interrogazione con uno di loro e passando, poi, a parlare di argomenti diversi con un altro. Anche i voti sembravano dati "a casaccio": per la precisione "in modo estemporaneo ed umorale", come rilevato nel monitoraggio.
La vicenda processuale: dovrà restituire gli stipendi
Lei fece ricorso al Tribunale del lavoro di Venezia, rivendicando, tra le altre cose, la «libertà di insegnamento». Il tribunale, nel 2018, le diede ragione, sostenendo che l'attività ispettiva di tre giorni, su quel breve periodo lavorativo, non bastava a configurare una inettitudine assoluta e permanente. Insomma, per la professoressa poteva essere semplicemente un periodo "storto". Ma, nel 2021, la Corte d'appello ribaltò la sentenza di primo grado e, ad aprile, la Cassazione ha confermato la sentenza di appello, condannando la professoressa a restituire gli stipendi, per i mesi non lavorati, incassati dopo il giudizio di primo grado, nonché tutte le spese processuali. L'argomentazione di fondo della Cassazione è che «la liberà di insegnamento in ambito scolastico è intesa come autonomia didattica diretta e funzionale a una piena formazione della personalità degli alunni, titolari di un vero e proprio diritto allo studio».
«Non è dunque libertà fine a se stessa, ma il suo esercizio - prosegue - attraverso l'autonomia didattica del singolo insegnante, costituisce il modo per garantire il diritto allo studio di ogni alunno e, in ultima analisi, la piena formazione della personalità dei discenti». Dunque, il concetto di libertà didattica «comprende certo una autonomia nella scelta di metodi appropriati di insegnamento» ma questo «non significa che l'insegnante possa non attuare alcun metodo o che possa non organizzare e non strutturare le lezioni».