Riforma del Csm, tra le toghe poca voglia di combattere

Una maggioranza silenziosa non crede nella rivolta: è una battaglia di pochi pm

Domenica 5 Maggio 2024 di Alberto Cisterna*
Una maggioranza silenziosa non crede nella rivolta: è una battaglia di pochi pm

Uno spettro si aggira tra le fila della magistratura italiana ed è il ricordo lugubre del flop dello sciopero del 2022 quando solo il 48% delle toghe aderì all'astensione proclamata dall’Anm nel maggio di quell'anno contro la riforma Cartabia.

Una debacle se si considerano le punte minime del 23% in Cassazione, del 33% nel distretto di Torino o del 38% nel distretto di Roma. La maggioranza di governo ha dato luce verde da poche ore alla separazione delle carriere e, a quel che pare, alla creazione di due Csm, uno per i giudici, l’altro per i pubblici ministeri. Se a questo si aggiungono la costituzione di un’Alta Corte per i procedimenti disciplinari e il sorteggio per individuare i componenti dell’Anm, il peggiore degli incubi si sta materializzando a esattamente due anni di distanza da quello sciopero che, per il suo fallimento, rende accidentata e quasi impraticabile la risposta che la magistratura intende dare ai propositi di riforma costituzionale del governo in carica.

LA MAGGIORANZA SILENZIOSA
Allora poco ci si è interrogati sul fallimento di quell’iniziativa di protesta e poco si sono volute comprendere le ragioni intime di quella “maggioranza silenziosa” che aveva deciso di continuare a lavorare ignorando l’appello all’astensione dell’associazionismo. Due anni dopo la clessidra della storia torna vorticosamente a scorrere e le opzioni di cui dispone l’Anm sono davvero poche. Un altro fallimento di fronte al pacchetto Nordio equivarrebbe a sancire la crisi definitiva del sindacato delle toghe che nell’ “ora più buia” per la corporazione non potrebbe contare sul consenso preponderante e ampiamente maggioritario dei propri adepti. Ma cosa freni tanti magistrati dalla voglia di difendere lo status quo e l’unicità delle carriere - la riforma di gran lunga più incisiva tra quelle in discussione – resta un oscuro non detto, una sorta di implicito metatesto che si ha poca voglia di decifrare tra le righe delle prese di posizione ufficiali.

Un primo punto è che i giudici italiani, ossia la maggioranza assoluta delle toghe, ritiene di essere stata trascinata nel baratro di queste riforme, mai sinora neppure tentate dalla politica, dalla casta dei pubblici ministeri. Non di tutti sia chiaro, ma di una frangia di essi che tra collusioni mediatiche, propagandismo carrieristico, competizioni furiose per i posti di comando nelle procure di spicco, ha consegnato al paese un’impressione pessima, gelatinosa, inaffidabile. Non serve più, dopo 30 o 40 anni, evocare il pantheon degli eroi della lotta al terrorismo o alla mafia, come pur un po’ stucchevolmente continua a farsi per ammiccare alla pubblica opinione e sollecitarne il consenso in questi momenti di difficoltà. Il processo Eni a Milano con l’asserito occultamento di prove favorevoli agli imputati da parte dell’accusa, le lotte furibonde e opache per la successione alla guida della procura di Roma scoperchiate dell’affaire Palamara, la condanna di un esponente di primo piano del giustizialismo a Brescia nei riverberi malmostosi della pretesa Loggia Ungheria, le sentenze della giustizia amministrativa per governare le lotte per la direzione di uffici più importanti e sempre di procura, lo scandalo dei dossier della Procura nazionale Antimafia sul caso Crosetto, hanno ulteriormente scavato un solco tra la maggioranza dei giudici italiani - affannata e affaticata da carichi di lavoro enormi e da inefficienza inemendabili - e un quota parte (esigua certo, ma tutt’altro che trascurabile) dei pubblici ministeri che viene considerata nel metaverso dei corridoi, delle chat e delle conversazioni private una sorta di incontrollata enclave che mette a rischio l’autorevolezza e il prestigio della giustizia italiana. «Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile» (Matteo 9, 41-50) a questo limpido messaggio evangelico sembra ispirarsi quella parte delle toghe che ritiene la battaglia contro la separazione delle carriere ormai persa e che intravede la frattura esistente tra giudici e pubblici ministeri, proprio lungo questo crinale, come non rimarginabile.

Se ne vuole una dimostrazione? Per il posto di presidente del tribunale di Lecce concorrono 4 candidati, per quello di procuratore della Repubblica 6; il posto di presidente della corte d’appello di Potenza era senza alcun candidato, ma per il posto di procuratore generale di Lecce concorrono in 8; per la presidenza del tribunale di Crotone sono in 4, per la procura nella stessa città ci sono 5 aspiranti; a render chiaro quale sia la vera competizione delle carriere.

LA MINACCIA
Secondo una parte rilevante della magistratura si tratta di una riforma che porterà guasti in questo paese e che potrebbe consegnare, se approvata, a un manipolo di magistrati collocati a ridosso, se non intimamente coesi alle forze di polizia, i destini dei cittadini e senza neppure il freno del controllo derivante da un Csm composto oggi a maggioranza di giudici. Pm che promuovono pm; Pm che nominano pm; Pm che formano pm potrebbe essere una minaccia in una nazione che ha massimamente bisogno di disancorare la pubblica accusa dalle istanze e dagli obiettivi delle forze di polizia per restituirle la funzione di filtro obiettivo e imparziale dell’azione penale. Ma a questo punto, a occhio e croce, les jeux sont faits.

* Presidente di sezione civile del Tribunale di Roma

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